Licenziamento per giusta causa: reintegra se il fatto contestato è tollerato dal datore di lavoro per ridurre i tempi di lavoro (Cassazione Civile, Sentenza n. 25837 del 1 settembre 2022)
La sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 25837 del 1 settembre 2022, ha confermato la decisione della Corte di Appello di Napoli, che ha accertato l’illegittimità del licenziamento e disposto la reintegra di una lavoratrice cui l’azienda aveva contestato il mancato rispetto di una procedura aziendale. Anche il dato storico del comportamento è stato ritenuto incontestato, la Cassazione ha rilevato, in linea con la sentenza di primo grado, che lo stesso datore di lavoro aveva tollerato il metodo di lavoro, anche se non conforme ai protocolli, perché consentiva di ridurre i tempi di evasione dei singoli incarichi ai dipendenti.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 37249/2019 proposto da:
COMDATA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20,
presso lo Studio Legale PIACCI DE VIVO PETRTACCA, rappresentata e
difesa dall’avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA, CARLO MAJER;
– ricorrente –
contro
A.R., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO
VITTORIO EMANUELE II n. 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA
SILVESTRI, rappresentata e difesa dall’avvocato ERNESTO MARIA
CIRILLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6289/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,
depositata il 13/06/2019 R.G.N. 2802/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
11/05/2022 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO.
RILEVATO IN FATTO
che:
1. A.R. ha agito in giudizio nei confronti di Comdata s.p.a. per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole l’8.8.2008 e le tutele di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
2. Alla lavoratrice, inquadrata nel V livello del CCNL di settore con qualifica di operatore specializzato customer care, erano state contestate n. 135 illegittime visualizzazioni di alcuni clienti, eseguite nell’arco di due mesi e senza indicazione del motivo.
3. Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda e dichiarato illegittimo il licenziamento, condannando la società alla reintegra e al risarcimento del danno. La Corte d’appello, con sentenza n. 941/201, ha rigettato l’impugnazione di Comdata s.p.a..
4. A fondamento della decisione i giudici di appello hanno evidenziato, dopo avere riprodotto il contenuto delle deposizioni testimoniali raccolte in primo grado, che: 1) seppure non era dato dubitare sul verificarsi dei fatti nella loro materialità – e cioè le n. 135 visualizzazioni riferibili all’account della A., effettuate senza l’indicazione del “motivo del contatto”- altrettanto non poteva affermarsi sulla effettiva obbligatorietà della rigida osservanza della procedura aziendale come invece dedotto dalla società in sede di contestazione; 2) l’atteggiamento datoriale in un certo senso tollerante della prassi suddetta escludeva che il comportamento tenuto dalla A. avesse potuto incrinare in modo irrimediabile il vincolo fiduciario con conseguente improcrastinabile interruzione del rapporto di lavoro; 3) il provvedimento espulsivo, pertanto, difettava della giusta causa e, comunque, non era proporzionato alla condotta contestata risultando sicuramente svilita la intenzionalità della dipendente; 4) non era stata fornita, nel caso in esame, la prova dell’aliunde perceptum.
5. Con sentenza n. 14319 del 2017, la Corte di Cassazione ha accolto i primi due motivi del ricorso proposto dalla società (con cui era stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., in relazione agli artt. 1175,1375,2104 e 2105 c.c., nonché dell’art. 48 c.c.n.l. di settore), ritenendo assorbito il terzo motivo (con cui era stata denunciata l’omessa motivazione in ordine alla “limitata possibilità per la dipendente, quale addetta al Reparto Credito, di accedere alla visualizzazione del Dettaglio chiamate, (accesso che) le era espressamente precluso tranne l’eccezionale e residuale caso della visualizzazione delle lavorazioni attinenti al traffico GPRS”), ed ha cassato con rinvio la sentenza d’appello.
6. La S.C. ha ritenuto che la sentenza d’appello non avesse correttamente individuato e applicato il parametro normativo della giusta causa e le relative specificazioni inerenti il vincolo fiduciario ed ha statuito quanto segue: “12. Ed invero la Corte distrettuale non ha valutato – ai fini di ritenere se vi fossero le condizioni circa la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro – che l’esistenza di una prassi tollerata, sulla inosservanza della procedura aziendale in ordine alle visualizzazioni del traffico telefonico degli utenti senza la indicazione dei motivi del contatto, andasse comunque indagata con la peculiare esistenza dei fatti storici del caso in concreto e, cioè, con la circostanza che delle n. 135 visualizzazioni, ben 123 riguardavano sempre gli stessi tre numeri telefonici. 13. Essendo, sotto il profilo logico, poco plausibile che quasi tutti i contatti della A. fossero limitati, nell’arco di due mesi, solo a tre clienti, andava analizzato se l’inosservanza della procedura fosse stata determinata da mere logiche di velocizzazione delle operazioni ovvero da violazioni degli obblighi di fedeltà e diligenza, tanto più che i giudici del merito non hanno considerato che, per gli stessi fatti, la dipendente era stata rinviata a giudizio dal GIP del Tribunale di Napoli per il reato di cui all’art. 617 c.p., assumendo un comportamento contrario al disposto dell’art. 48 par. B) del CCNL Telecomunicazioni che prevede il licenziamento per giusta causa in relazione al comportamento del dipendente che “provochi all’azienda grave nocumento morale e materiale o che compia, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, azioni che costituiscano delitto a termini di legge”. 14. Si imponeva, pertanto, di verificare se la fiducia (quale specificazione del parametro normativo sopra indicato ai fini della giusta causa del recesso ex art. 2119 c.c.) fosse stata posta in discussione dal comportamento della A., sia per il vistoso rilievo che tale elemento assumeva per le funzioni svolte dalla lavoratrice e per il potere discrezionale in ordine alla possibilità di accedere alla visualizzazione del traffico telefonico (il tutto accentuato proprio da una prassi permissiva che si era venuta ad instaurare nella organizzazione del lavoro), sia per avere esposto il datore di lavoro al rischio, nei confronti degli utenti, della violazione dei diritti di riservatezza e segretezza”.
7. La Corte d’appello di Roma, giudicando in sede di rinvio, ha confermato la statuizione di primo grado di illegittimità del licenziamento intimato alla A..
8. La Corte di rinvio ha premesso che alla lavoratrice era stato contestato di aver effettuato visualizzazioni di dettagli di chiamate non rientranti tra le sue mansioni di addetta al reparto Credito Collection e, comunque, senza rispettare le procedure aziendali; che, secondo quanto precisato da Comdata s.p.a., le funzioni della A. di “analista crediti individui” non prevedevano affatto la visualizzazione dei dati di traffico telefonico dei clienti (OMISSIS), fatta eccezione per le lavorazione attinenti al traffico GPRS.
9. Poste tali premesse, i giudici di rinvio hanno accertato, in base agli elementi di prova in atti: che le funzioni di “analista crediti individui” non erano svolte dalla lavoratrice in maniera esclusiva; che le visualizzazioni contestate erano state eseguite nell’ambito della ordinaria e concorrente attività di operatore telefonico, pure svolta dalla lavoratrice; che, in relazione al periodo di riferimento temporale (due mesi), il numero delle visualizzazioni non era affatto abnorme, considerato che, in base alle deposizioni testimoniali, ogni operatore riceveva nell’arco di un turno circa 150/200 telefonate e che anche per le chiamate out bound (in uscita) poteva essere necessario procedere a visualizzazioni, come ammesso dalla stessa società; che nel caso di specie le visualizzazioni avevano riguardato per la quasi totalità (123 su 135) soltanto tre utenze intestate rispettivamente a R.F. (75 visualizzazioni), a (OMISSIS) (34 visualizzazioni) e a L.R. (14 visualizzazioni); che, dalle risultanze istruttorie in sede penale (i verbali delle deposizioni testimoniali e la sentenza penale di primo grado, formati successivamente alla definizione del giudizio di appello dinanzi alla Sezione lavoro, erano acquisibili nel giudizio di rinvio; il procedimento penale si era concluso in primo grado con sentenza di assoluzione della
lavoratrice dal reato di cui all’art. 615 ter c.p.c., comma 2 n. 1, perché il fatto non sussiste) era emerso che per le utenze riferibili al R. (utilizzatore anche dell’utenza intestata a (OMISSIS)) vi era la specifica autorizzazione dello stesso alle visualizzazioni del dettaglio di chiamate e che per le residue utenze le visualizzazioni erano risultate considerato che la telefonata doveva avere una durata massima di tre minuti, non era infrequente, che su una stessa utenza vi fossero in un ristretto arco temporale una pluralità di contatti; che, in definitiva, la visualizzazione del dettaglio chiamate era una modalità di gestione delle telefonate in bound rientrante nell’ambito di operatività del reparto crediti e non integrava una condotta illecita, se non in caso di visualizzazione senza autorizzazione dell’utente o per finalità estranee al servizio, e che l’omessa indicazione del motivo di visualizzazione costituiva pacificamente una prassi tollerata.
10. La sentenza impugnata ha escluso che la condotta della lavoratrice potesse integrare la fattispecie disciplinare di cui all’art. 48 lett. B c.c.n.l. per il personale dipendente da imprese di telecomunicazioni (secondo cui è punibile con il licenziamento senza preavviso il lavoratore che “provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale o che compia, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, azioni che costituiscono delitto”) atteso che nella specie non era stato allegato e dimostrato alcun nocumento effettivo ai danni della società e che, parimenti, non era emersa una condotta della lavoratrice avente rilievo penale (circostanza che trovava conferma nella assoluzione pronunciata con sentenza penale di primo grado). Ha quindi ritenuto non configurabile una condotta idonea a recidere il vincolo fiduciario e ad integrare una giusta causa di recesso e, neppure, una condotta inadempiente costituente giustificato motivo soggettivo di recesso.
11. Avverso tale sentenza Comdata s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. A.R. ha restituito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Che:
12. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c., anche in relazione all’art. 384 c.p.c., per non essersi il giudice di rinvio attenuto ai presupposti di fatto implicitamente accertati nella sentenza rescindente.
13. Premesso che la sentenza rescindente vincola il giudice di rinvio non solo in ordine ai principi di diritto in essa affermati ma anche in relazione ai presupposti di fatto che costituiscono le premesse logico giuridiche della pronuncia di annullamento, la parte ricorrente censura la sentenza impugnata per avere, non solo trascurato i presupposti di fatto implicitamente accertati nella sentenza rescindente, ma anche svolto un’indagine di merito ulteriore rispetto ad essi. I presupposti di fatto su cui era implicitamente basata la sentenza di legittimità comprendevano: l’inosservanza della procedura aziendale, il vistoso rilievo che il comportamento della lavoratrice assumeva per le funzioni dalla stessa svolta e per il potere discrezionale in ordine alla possibilità di accedere alla visualizzazione del traffico telefonico, l’esposizione del datore di lavoro al rischio di violazione dei diritti di riservatezza e segretezza degli utenti, la scarsa plausibilità logica dell’essere quasi tutti contatti della lavoratrice limitati, nell’arco di due mesi, a solo tre clienti. Di tali presupposti fattuali la Corte di rinvio non avrebbe tenuto conto, procedendo ad ulteriori accertamenti in fatto sia sulla inosservanza della procedura e sia sulle modalità di esecuzione della prestazione.
14. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c., sotto il profilo dell’ampliamento dell’indagine di merito.
15. Posto che la sentenza rescindente ha accolto i primi due motivi di ricorso per violazione di norme di diritto, si assume che il giudice di rinvio avrebbe dovuto astenersi dal valutare fatti nuovi e dal porre tali fatti a fondamento della decisione; che, al contrario, la sentenza impugnata ha esteso l’indagine di merito, introducendo elementi non trattati nel primo giudizio di appello né indicati dalla Suprema Corte tra i presupposti di fatto in relazione ai quali avrebbe dovuto trovare applicazione il principio di diritto enunciato ai sensi dell’art. 384 c.p.c.. La Corte di rinvio ha introdotto il tema della asserita autorizzazione alla visualizzazione del traffico telefonico da parte dei titolari delle utenze, conducendo peraltro questa indagine sui verbali delle testimonianze e sulla sentenza penale di primo grado, documenti estranei al precedente giudizio di appello.
16. I primi due motivi, da esaminare unitariamente perché logicamente connessi, sono infondati.
17. Occorre considerare che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14319 del 2017, ha accolto i primi due motivi, sulla violazione degli artt. 2119,2014 e 2105 c.c., e dell’art. 48 c.c.n.l., ed ha ritenuto assorbito il terzo motivo con cui la società aveva eccepito “la nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4) in ragione dell’omessa motivazione in ordine alla limitata possibilità per la dipendente, quale addetta al Reparto Credito, di accedere alla visualizzazione del “Dettaglio chiamate”. Sostiene che i giudici di merito avevano omesso di valutare che la A., che aveva funzioni di “Analista Crediti Individui”, non era tenuta nello svolgimento delle sue mansioni a visualizzare i dati di traffico telefonico dei clienti (OMISSIS) e ciò, anzi, le era espressamente precluso tranne l’eccezionale e residuale caso della visualizzazione delle lavorazioni attinenti al traffico GPRS”.
18. La sentenza di cassazione non conteneva un accertamento sul concreto contenuto delle mansioni svolte dalla lavoratrice e sulla possibilità o sul divieto, in base alle mansioni svolte, di visualizzare i dati di traffico dei clienti. Nel ritenere assorbito il terzo motivo la Corte di Cassazione ha rimesso l’accertamento sul punto al giudice di rinvio.
19. Come statuito da questa S.C. (v. Cass. n. 27337 del 2019), il ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata in sede di rinvio, diretto a denunciare la mancata osservanza del principio di diritto fissato con la pronuncia di annullamento, od il mancato assolvimento dei compiti con essa affidati, implica il potere-dovere della suprema Corte di interpretare direttamente il contenuto e la portata della propria precedente statuizione” (Cass. n. 2020 del 1981; Cass. n. 5567 del 1982; Cass. n. 19212 del 2005; Cass. n. 9395 del 2006). I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione (Cass. n. 12817 del 2014). Nella prima ipotesi, il giudice è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo (Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5769 del 1999; Cass. n. 188 del 1994; Cass. n. 3572 del 1987); nella seconda ipotesi, invece, egli non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata; nella terza ipotesi, infine, la potestas iudicandi del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di Cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (Cass. n. 6707 del 2004).
20. Nella fattispecie oggetto di causa, è vero che la sentenza rescindente ha accolto due motivi di ricorso formulati in termini di violazione di legge, e specificamente della clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., ma la stessa sentenza ha parimenti segnalato la necessità di indagare su alcuni elementi fattuali rilevanti ai fini della integrazione del parametro normativo della giusta causa. La citata sentenza (punti 12 e 13), dopo aver richiamato il paradigma normativo della giusta causa ed anche i fatti storici accertati (cioè la prassi delle visualizzazioni del traffico telefonico degli utenti senza la indicazione dei motivi del contatto e il dato per cui delle n. 135 visualizzazioni, ben 123 riguardavano gli stessi tre numeri telefonici), ha ritenuto che fosse necessario analizzare se, alla luce dei suddetti elementi, l’inosservanza della procedura potesse rivelare una violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza, tenuto anche conto del rinvio a giudizio in sede penale, oppure rispondesse unicamente a logiche di velocizzazione delle operazioni. Alternativa quest’ultima che, evidentemente, la Corte di Cassazione ha ritenuto non accertata e non valutata dalla Corte d’appello e tale omissione rilevante ai fini della corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di cui all’art. 2119, anche in relazione all’art. 48 del c.c.n.l..
21. Il giudice di rinvio si è mosso in questo binario segnato dalla S.C., ha valutato il materiale istruttorio già raccolto (le deposizioni dei testi M., G., D. e D.C., pag. 6-7 sentenza rescissoria) e ha acquisito gli atti del procedimento penale svolto contro la lavoratrice, ritenendo ammissibile la relativa produzione per un duplice ordine di ragioni: perché si trattava di atti formati dopo la prima sentenza d’appello (si dà atto che in primo grado la lavoratrice aveva depositato la richiesta di archiviazione non accolta e il successivo decreto di rinvio a giudizio) e perché comunque decisivi. Ciò in coerenza con i principi affermati da questa Corte secondo cui il carattere “chiuso” del giudizio di rinvio non osta a che in esso le parti possano depositare documenti formati successivamente al deposito del ricorso in riassunzione ex art. 392 c.p.c., o che non sia stato possibile produrre prima per causa di forza maggiore (v. Cass. n. 12633 del 2014; n. 21587 del 2009) e salvo l’esercizio, in sede di rinvio, dei poteri istruttori esercitabili d’ufficio dal giudice del lavoro anche in appello (art. 437 c.p.c.), limitatamente ai fatti già allegati dalle parti, o comunque acquisiti al processo ritualmente, nella fase processuale antecedente al giudizio di cassazione, in quanto i limiti all’ammissione delle prove concernono l’attività delle parti e non si estendono ai poteri del giudice, ed in particolare a quelli esercitabili di ufficio (v. Cass. n. 900 del 2014; n. 3047 del 2006).
22. In base all’esame di tali complessivi elementi di prova, la Corte di rinvio ha ritenuto che il dato delle 123 visualizzazioni per tre clienti in due mesi fosse spiegabile in ragione delle concrete mansioni svolte dalla lavoratrice, non solo di “analista crediti individui” ma anche di operatore telefonico (aspetto che era oggetto del terzo motivo di ricorso in cassazione della società, ritenuto assorbito), come desunto dalle deposizioni raccolte dinanzi al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, e che le visualizzazioni molteplici per uno stesso cliente fossero autorizzate dai clienti stessi (dal Ricciardi in particolare) e giustificate dalla organizzazione del lavoro che consentiva telefonate non più lunghe di tre minuti, con necessità quindi di plurimi e ripetuti contatti e visualizzazioni (elementi questi desunti dai verbali di prova del processo penale).
23. La Corte di rinvio non si è quindi “svincolata” dalla sentenza rescindente, come sostiene la società, ma si è attenuta ai confini del giudizio rescissorio e alle specifiche direttive della S.C..
24. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., anche in relazione agli artt. 384 e 394 c.p.c..
25. Si sostiene che la Corte di Cassazione aveva demandato al giudice di rinvio di “verificare se la fiducia (quale specificazione del parametro normativo sopra indicato ai fini della giusta causa del recesso ex art. 2119 c.c.) fosse stata posta in discussione dal comportamento della A., sia per il vistoso rilievo che tale elemento assumeva per le funzioni svolte dalla controricorrente e per il potere discrezionale in ordine alla possibilità di accedere alla visualizzazione del traffico telefonico sia per aver esposto il datore di lavoro al rischio, nei confronti degli utenti, di violazione dei diritti di riservatezza e segretezza; che il giudice del rinvio avrebbe dovuto valorizzare le indicazioni date dalla Suprema Corte sulle funzioni svolte dalla lavoratrice, sul potere discrezionale di accedere alla visualizzazione del traffico telefonico e sulla esposizione del datore di lavoro al rischio di violazione dei diritti degli utenti; che il giudice di rinvio aveva invece omesso di considerare che la lavoratrice era stata nominata incaricata del trattamento dei dati personali dei clienti (OMISSIS), era dotata di accesso discrezionale ai sistemi di visualizzazione del traffico telefonico dei clienti ed aveva esposto la società al rischio di lesione dei diritti di riservatezza e segretezza degli utenti; che la Corte di rinvio aveva omesso di verificare il presupposto della fiducia, come declinato dalla sentenza rescindente, alla luce “delle mansioni, del grado di affidamento che queste esigono” e in relazione “alla sua portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze, ai motivi, alla natura e all’intensità dell’elemento psicologico”. In particolare, si assume che la Corte di appello abbia omesso di considerare l’intensità dell’elemento intenzionale, nel caso di specie elevata atteso che la lavoratrice nell’arco di soli due mesi ha effettuato ben 135 visualizzazioni del dettaglio chiamate, in violazione delle procedure aziendali e in relazione a soli tre clienti; nonché il grado di affidamento richiesto dalle mansioni e dalla nomina di incaricato al trattamento dei dati sensibili dei clienti (OMISSIS).
26. Il motivo non può trovare accoglimento. Premesso che la sentenza impugnata non contiene alcun accertamento sulla nomina della lavoratrice quale incaricata del trattamento dei dati personali dei clienti, comunque la Corte di rinvio, nell’applicare il principio di diritto enunciato, ha svolto una valutazione globale delle risultanze istruttorie, escludendo che le visualizzazioni multiple fossero non solo illecite ma anche sintomatiche di negligenza o infedeltà e tale valutazione di merito non è censurabile in questa sede di legittimità.
27. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 48 c.c.n.l. Telecomunicazioni, anche in relazione agli artt. 384 e 394 c.p.c..
28. Si afferma che la Corte di Cassazione aveva richiesto di verificare se il comportamento tenuto dalla lavoratrice fosse stato determinato da violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza e che tale accertamento avrebbe dovuto essere eseguito anche tenendo conto del fatto che “la dipendente era stata rinviata a giudizio dal gip del tribunale di Napoli”, circostanza che già di per sé, indipendentemente dagli esiti del procedimento, implicava anche per la Suprema Corte che la predetta avesse posto in essere un comportamento contrario all’art. 48 par. B del c.c.n.l. applicato; che la Corte di rinvio aveva invece seguito una propria linea decisionale, senza svolgere alcuna argomentazione sul disposto rinvio a giudizio e senza considerare l’idoneità di tale circostanza ad integrare la previsione di cui all’art. 48 cit., essendo irrilevante quanto dichiarato dal giudice di rinvio sull’esito del procedimento penale, data l’autonomia dello stesso rispetto al procedimento civile e considerato che la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado era stata impugnata dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Napoli.
29. Neppure questo motivo può essere accolto in quanto la Corte di rinvio ha preso in esame gli atti del procedimento penale e la sentenza non definitiva ivi pronunciata come meri elementi di prova, che ha valutato unitamente agli altri dati probatori raccolti nel processo del lavoro.
L’assunto di parte ricorrente, secondo cui il rinvio a giudizio in sede penale fosse idoneo di per sé ad integrare la fattispecie di cui all’art. 48 del c.c.n.l. non trova alcun riscontro nella sentenza rescindente. La Corte di rinvio ha preso in esame l’art. 48 cit., ha ritenuto che lo stesso presupponesse un danno effettivo e non meramente potenziale e che la fattispecie legittimante il licenziamento non era integrata per la mancata prova di un danno effettivo, non allegato e non dimostrato dalla società datoriale.
30. Con il quinto motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il travisamento delle risultanze processuali con riferimento a fatti ritenuti decisivi dalla Corte d’appello di Napoli.
31. Si sostiene che il giudice di rinvio abbia posto a base della decisione argomenti contraddetti dagli atti processuali (e specificamente dalle deposizioni dei testi D., G. e D.C.), là dove ha ritenuto che la lavoratrice svolgesse, oltre alla mansione di analista crediti individuali, anche l’ordinaria attività di operatore telefonico.
32. La censura è inammissibile perché investe la valutazione delle prove testimoniali e sollecita una revisione del ragionamento decisorio non consentita in questa sede di legittimità.
33. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
34. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza.
35. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. E. M. Cirillo, antistatario.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 11 maggio 2022.
Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2022