Illeggittima l’adibizione della lavoratrice a mansioni inferiori al rientro dalla maternità
Il datore di lavoro può adibire la lavoratrice, al suo rientro dalla maternità, a mansioni diverse o inferiori?
Per trovare risposta al quesito occorre partire dall’art. 56 del Testo Unico sulla Maternità e Paternità (Decreto Legislativo n. 151 del 26 marzo 2001) che riunisce la maggior parte delle previsioni di tutela a favore dei genitori lavoratori.
L’art. 56, rubricato “diritto al rientro e alla conservazione del posto” dispone che la lavoratrice, al termine del congedo (obbligatorio e facoltativo) ha diritto al rientro nella stessa unità produttiva dov’era assegnata all’inizio del periodo di gravidanza.
Allo stesso modo ed integrazione della giusta tutela prevista dal Testo Unico, sempre per il primo comma dell’art. 56 le lavoratrici hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. Hanno altresì diritto di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero loro spettati durante l’assenza.
Naturalmente, le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche al lavoratore al rientro al lavoro dopo la fruizione del congedo di paternità.
Le previsioni di cui all’art. 56 hanno lo scopo di contenere le criticità che soprattutto le lavoratrici, al rientro dal congedo, possono incontrare una volta rientrati al lavoro. In questo senso, integrano il divieto di licenziamento della lavoratrice madre, previsto dall’art. 54 del Testo Unico.
L’art. 54, al comma primo, dispone che “le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino“.
Purtroppo, non è infrequente che il datore di lavoro adotti strategie discriminatorie con l’obiettivo di ottenere l’espulsione della dipendente/ del dipendente.
Tale finalità vale anche con riguardo alla tutela della professionalità: al rientro dal congedo la lavoratrice e il lavoratore possono trovarsi davanti ad una ridistribuzione delle loro mansioni fra i dipendenti già in forza o perfino assegnate a personale di nuova assunzione.
La previsione del testo unico che vieta l’adibizione della lavoratrice, al suo rientro, a mansioni inferiori, si coniuga, naturalmente, con quanto disposto in via generale per ogni rapporto di lavoro dall’art. 2103 del codice civile. Quest’ultimo, come noto, prevede che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito“.
Sulla scorta dei predetti principi la Cassazione, con l’ordinanza in calce, ha confermato la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno da demansionamento ed al pagamento delle differenze retributive maturate.
Spiace tuttavia annotare che non sia stata accertata la natura discriminatoria della condotta datoriale, per mancanza di prova, nonostante gli alleggerimenti probatori previsti dall’art. 40 del Codice delle Pari Opportunità (.
Cassazione Civile Sezione Lavoro Ordinanza n. 20253 del 15.07.2021